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E quindi ci troviamo con Nasser. Professionale, arriva puntualissimo all’appuntamento prestabilito sotto il mio hotel. Via verso la prima tappa, Nasser ti ricordi, la moschea: “I know, I know”. Ottimo allora ciacoliamo.
Nasser ha 38 anni, una moglie e due figli. Con la moglie si sono conosciuti in una scuola dove lei, ungherese, insegna inglese ai bambini, mentre lui, a detta sua, faceva “everything”. L’ho intesa come l’attività del tuttofare, ce lo vedo. Me lo immagino come una sorta di bidello a bassa specializzazione ma elevata capacità di risolvere problemi con un approccio olistico e interdisciplinare. Ebbbrava moglie ungherese. Good catch! La moglie, apprendo, si é poi convertita all’Islam e ha imparato l’arabo. Mentre lui è rimasto con la sua religione e l’ungherese non lo vuole imparare. [Questa storia l’ho già sentita… nda.]

Nel frattempo arriviamo alla prima destinazione. Un’antica moschea di cui rimangono alcune rovine. Nasser é convito che non sia visitabile, ma io insisto, Nasser fermiamoci, vedi, c’è un parcheggio e anche un ingresso intitolato “Visitor center”. La verità sta nel mezzo, come in molte cose. Nasser non nasconde stupore alla scoperta di questa nuova infrastruttura ricettiva, non lo sapeva, in effetti non l’aveva mai visitata questa moschea. Ad ogni modo, va da sé che il Visitor Center, pur essendoci come entità, é chiuso. Il sito é comunque free entry quindi accediamo, Nasser sta apprezzando la passeggiatina. Foto di qua foto di là, pronti per la seconda destinazione. Nasser, ti ricordi: “I know, I know”. Benissimo.

La macchina di Nasser é foderata di plastica. Dico foderata in senso letterale. é sicuramente la mano di uno specialista che è intervenuta per coprire l’intera superficie intaccabile da contatto umano con uno strato di plastica trasparente che fa addirittura un risvoltino dentro la fessura del finestrino. Con perizia, sono state lasciate opportune feritoie per allacciare le cinture di sicurezza (che visto l’utilizzo improprio del telefono alla guida mi suggerisco caldamente di usare) e accedere alla maniglia della portiera. Non ho ben capito la logica, ma ho l’impressione che questa scelta stilistica Nasser l’abbia fatta perché i sedili sono bianchi e teme si sporchino con l’utilizzo da parte della clientela. D’altra parte, medito, se hai un taxi, è ovvio che la gente si siede sui sedili. Dovrebbero essere fatti per questo. Comunque, tengo per me i miei dubbi, incluso il fatto che, col caldo che fa da queste parti d’estate, non oso immaginare quanto si possa sudare su questa superficie del tutto ostile alla traspirazione.

E intanto Nasser mi fa “Ma quindi hai figli?” – “No, Nasser, figùres! Allah ce ne scampi e liberi. I tuoi sono certamente meravigliosi, ma per quanto mi riguarda ora meglio di no. Non sono nemmeno sposata. E non ho nemmeno un moroso. Pensa te che roba strampalata!”. “E stai viaggiando da sola, quindi?” Sì, e ti dirò che è una gran goduria. Invece Nasser si annoierebbe, mi confessa. Non puoi chiacchierare con nessuno. “Ma non è vero, Nasser, guarda quanto stiamo discorrendo noi due!”

A un certo punto Nasser accosta e mi fa “Eccoci”. Io guardo il posto, guardo Nasser, guardo la mia mappa. Non ci siamo. Io mi aspettavo di trovare dei tumuli, delle tombe risalenti a un periodo non meglio identificato A.D. Di essere di fonte a un terreno piatto con delle piccole collinette. Invece, a forza di “I know, I know” [e anche questa storia mi sembra in qualche modo familiare, nda.], qui siamo davanti a un non so che di negozio pieno di suppellettili. “Ah non era questo che cercavi?” Decido comunque di scendere, convinta che possa esserci del buono nel contributo di Nasser al mio viaggio esplorativo. Nasser, nel frattempo, mi chiede se è ok se mentre io mi intrattengo qui lui va a pregare alla moschea poco più in là, che é l’ora. “Quanto pensi di metterci a visitare il posto?” – “Nasser, non so nemmeno dove cavolo mi hai portata… come faccio a dirti quanto ci metto?!? … Facciamo che la mia visita avrà la durata della tua preghiera.” Pattuiti questi accordi poco precisi ma molto spirituali ci separiamo. Appuntamento alla macchina tra un tot. Entro in questo laboratorio di terracotta meraviglioso. Terracotte di tutti i tipi in tutti gli stadi del processo produttivo. Terracotte fresche, terracotte secche, terracotte dipinte, terracotte cotte. Compro un souvenir, addirittura. E dopo questo tempo trascorso in parallelo tra sacro e profano, Nasser ed io, io e Nasser, ci ricongiungiamo e ripartiamo alla volta della prossima destinazione.

“E quindi quante preghiere mi fai al giorno? Cinque come raccomanda la tradizione?”. No, Nasser è un tipo sbarazzino. Forse anche per via del suo lavoro, lui di preghiere ne fa tre. Punto. Una all’alba, una a metà giornata e una al tramonto. Dove sei sei, stendi il tuo stuoino per genufletterti di fronte all’entità divina che è tutto intorno a te, ma soprattutto in direzione della Mecca, ed è fatto. Se c’è la moschea, però, è meglio. Dà sempre quel tocco in più di raccoglimento.

Ed ecco i tumuli. Li abbiamo trovati. Nasser non sapeva bene cosa fossero. Pare a nessuno gliene freghi niente di queste montagnette di sabbia e sassi sotto le quali però giacciono corpi millenari. Ovvio, il sito è recintato da filo spinato. Intravvedo due avventori che se la camminano in mezzo alle tombe, ma Nasser mi assicura che sono studenti della scuola dall’altra parte dell’isolato che hanno preso lo “shortcut”. Ci sta…

Pronti via, voliamo verso una casa antica. Questa volta, accompagnata da un uomo locale, sono quasi certa che mi faranno entrare. E in effetti arriviamo, cancello aperto – stavolta era facile -, un simpatico soggetto tipo malesiano ci scorta alla scoperta di questa casa che scopro essere nientepopodimeno ché: la casa del re (una delle tante, diciamo). Una serie di meravigliose stanze abbracciano una corte centrale dove troneggia un albero dalle fronde molto ampie. Qui scopro che anche gente del rango del re in Bahrain vola basso. La palma da dattero è sostanzialmente l’unica pianta locale di cui, però, non si butta via niente. Si usano i frutti per mangiarli in vari formati, mentre le foglie e il legno del tronco sono materiali da costruzione impiegati assieme a pietra corallina e terra. Ecco, il contenitore e il contenuto di questa dimora reale praticamente dipendono dal dattero e suoi derivati e poco, davvero poco, di più. Questa famiglia reale sì che ci piace.

Visitiamo anche una sorta di museo di arti e mestieri, prima di arrivare alla celeberrima “camel farm” del re. A quanto pare, il re del Bahrain ha velleità moderate in termini architettonici ma sperpera tutto in cammelli. Li ama alla follia – come non essere d’accordo. Ne ha a centinaia. E se li tiene lì, in una specie di allevamento dove li trovo legati con le due zampe anteriori. Presente quando fai un dispetto a un tuo amico e gli leghi da sotto il tavolo i lacci delle scarpe insieme per farlo inciampare? Ecco: uguale. Fortunatamente i cammelli hanno 4 zampe, come è notorio, quindi riescono comunque a destreggiarsi. Ma non mi sembra una vita tanto felice quella del cammello del re. Chissà se li utilizza ancora come moneta in cambio di mogli… Che poi, pare questa storia dei cammelli sia abbastanza sopravvalutata. Sì, la donna si compra o, meglio, si valuta, ma a peso d’oro, non certo di cammelli! La famiglia dell’uomo, dopo attenta pre-selezione, finalizza la proposta di matrimonio formalizzando un’offerta economica (una specie di dote al contrario) che tiene conto della ricchezza di base della famiglia di origine della donna, nonché del suo grado di istruzione e, credo, della sua bellezza. Sotto un certo punto di vista, questa prospettiva nobilita la figura femminile rispetto alla nostra tradizione occidentale per la quale la famiglia della donna doveva porgere la dote a quella dell’uomo per “scusarsi” dell’incomodo arrecato dal doversi prendere carico di questa palla al piede.
Rifletto sul fatto che forse i cammelli erano solo un modo simbolico per uniformare pesi e misure nell’antichità (vedi post relativo nella sezione Odissea – Part 5. Degli altri valori degli americani, https://www.chiaratagliaro.com/odissea-part-5/). Per il resto, il costo del matrimonio arabo capita spesso sia spartito in parti uguali anche perché, di fatto, si conducono due matrimoni separati. Da una parte, la famiglia della donna con i loro invitati. Da quell’altra, quella dell’uomo con i loro invitati. Tempo totale medio trascorso da sposo e sposa insieme durante la giornata del matrimonio: circa 15 minuti. D’altronde fino a quel momento si erano visti zero, quindi ci sta prenderla a piccole dosi, per iniziare.

Nasser, coraggio, ultima tappa che si fa sera: il grande forte Qal’at al-Bahrain. Bello. Anche questo risultato dalla stratificazione di millenni di storia dove si sono avvicendate civiltà e culture. Ci hanno addirittura costruito un museo a fianco, che, pensa un po’, capita sia aperto e accessibile previo acquisto di un biglietto dal costo risibile. Il forte di per sé é in ristrutturazione, ma almeno ci si può fare un giro attorno. Nasser se ne guarda bene, è distrutto da tutta la cultura che gli ho propinato in questa giornata. “Nasser, per concludere in bellezza portami nel tuo ristorante preferito e abbandonami lì”. “Cosa vuoi mangiare?” – “Nasser, ti ho detto che voglio mangiare quello che mangeresti tu!” Quindi Nasser comincia a girare attorno a un isolato che mi pare (ed è) distantissimo dal centro città. Un ristorante certamente di nicchia. Ma sei sicuro? Sì sì era proprio qui… Bah, non capisco. Niente, giriamo 3 volte attorno alle stesse strade che sono organizzate in un biribissaio diabolico. Grazie anche alle esperienze dei giorni seguenti, realizzo che prima di fermare la macchina nel posto desiderato gli arabi fanno almeno 3-4 giri di perlustrazione. Il che comporta spendere altri 10 minuti minimo per raggiungere lo svincolo/rotatoria/corsia di immissione più vicino che consenta di fare dietro front. Si capisce, viaggiando sempre in autostrada, sostanzialmente, è come sbagliare l’uscita Verona-est. Ti tocca arrivare a Soave e reimmetterti nella carreggiata che va in direzione opposta. Mi resta tuttora oscura questa tecnica di arrivo a destinazione che rievoca inequivocabilmente un avvicinamento a mo’ di serpente attorno alla preda. Comunque, in questo caso, il motivo era che il ristorante non stava dove lo stavamo cercando mentre lui si incaponiva attorno a quattro case. [Anche questo tratto caratteriale mi è notorio…].

Perché gli uomini sono tutti uguali, worldwide: sono pigri, sono sempre convinti di sapere cosa stai per chiedere e non accettano di doversi orientare con una cavolo di mappa. Questo nel DNA c’ha che la direzione nel deserto si trova guardando le stelle e, quindi, gira che ti rigira. “Nasser, facciamo una bella cosa, digitiamo qui su Google ‘Tabreez’ e taaaac”. Con la navigazione digitale è un attimo che raggiungiamo l’isolato giusto e Nasser mi può scaricare definitivamente. Ci intratteniamo in una difficile negoziazione sul compenso che gli devo per il suo servizio, in cui finisce che io ottengo lo sconto desiderato, lo pago in Riyal Sauditi e lui mi dà il resto metà in Baharini Dinar e metà in Riyal Sauditi. Un casino. Se avevamo qualche cammello avevamo risolto il problema, secondo me. Tanto nella mia stanza d’albergo spazio ce n’é per ospitarne almeno un paio.

“Nasser, ma qui il rapporto dei tassisti con gli autisti di Uber come funziona?” Niente, le due cose sono sovrapposte. Chiami Uber e arriva un taxi. In sostanza, anziché sviluppare una app a parte per il servizio taxi, loro giustamente hanno detto: assorbi Uber nel servizio taxi e risolvi due problemi con una sola soluzione. Mi pare brillante ed efficiente. Nasser, ti saluto qui, buona vita. Io il tuo numero ce l’ho, però la lascerei al caso. Se il destino vorrà, la prossima volta che chiamo Uber potresti arrivare proprio tu. Anche se, in fin dei conti, sei un uomo. L’ideale sarebbe chiamare Uber e vedersi arrivare un cammello, sicuramente la mia lingua è facile che nessuno dei due la impari, entrambi sono convinti di sapere sempre cosa stanno facendo pur non brillando di acume, e sicuramente per orientarsi seguono solo il proprio istinto.