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Il mio libriccino sul Bahrain suggerisce di rivolgersi a un’organizzazione turistica presente su Instagram. La cerco ma sembra inattiva da mesi, forse anni. Sarà il COVID, mi dico. … Cerco con furore altre organizzazioni simili senza successo finché non scovo un numero che dice rispondere a Whatsapp. Scrivo su WhatsApp. Silenzio. Incappo nel sito del Ministero dei beni culturali dove trovo una lista sterminata di attrazioni e luoghi salienti. Tuttavia la documentazione non svela né come raggiungere questi posti, né se c’è una biglietteria, un sito internet dedicato, un numero di telefono per informazioni, niente. Belli e impossibili.

Nell’incapacità di trovare la benché minima informazione turistica, decido di iniziare con il museo nazionale. Mi sembra una buona idea per avere almeno un’infarinatura generale, uno sguardo a volo d’uccello. Mi incammino sulla solita autostrada, ma nella direzione opposta rispetto al giorno precedente (hai visto che si poteva camminare anche di là…!). Dieci minuti e ci sono.
Mi rinfranco dall’alta velocità con una colazione servita alla lentezza della lumaca stanca. Consiste in una ciotola di spaghetti tipici bahreiniti (me li hanno spiegati così, ma d’altronde non saprei come altro descriverli) cotti in zafferano e acqua di rosa, sopra cui è stato adagiato un uovo all’occhio di bue senza occhio (non so che fine abbia fatto). Spendo ben tre ore all’interno del museo, nel tentativo di ricostruire la storia di questo Paese che è raccontata in maniera a dir poco frammentata. Confusa ma felice mi dichiaro sufficientemente edotta e me ne posso andare.

A questo punto mi si pone un problema annoso ovvero come andare al di là dell’autostrada che il guardo esclude per recarmi a Manama “centro”. Mentre esco dal museo mi scarico Uber, che immagino l’unico salvatore in questa situazione. Mentre la app è ancora in download, però, intravvedo un tassista che sembra aspettare qualcuno; mi dico, perché non provare? Mi scusi buonuomo, che per caso sta aspettando qualcuno? Sì in effetti il nostro amico è stato chiamato dal museo e sta aspettando una cliente. Dice, no problem, le chiediamo se potete condividere la corsa. Mi sembra un brillante escamotage. Restiamo alcuni minuti in attesa che la miss si palesi. Quando stiamo per perdere le speranze, esce dal museo una specie di gorgone travestita da donna occidentale, con in testa una palandrana rosa messa á la caz’, che si precipita con fare imperioso verso il taxi. Si fionda all’interno dell’abitacolo senza salutare nessuno. Il nostro uomo ed io ci scambiamo uno sguardo di dubbio. Al ché, lui si affaccia al finestrino della sua stessa macchina e le chiede “ma’am, dove deve andare?”. Quella dice qualcosa di incomprensibile, possibilmente un insulto in qualche lingua, esce dalla macchina infuriata e si dirige nuovamente verso il museo con passo aggressivo mentre io le grido “volevo solo chiederle se potevamo dividere la corsaaaaa!”. Niente attendiamo altri minuti pensando che questa scenda a più miti consigli, ma a una certa decidiamo che il sodalizio sarà solo nostro e chi non ci vuole è perché non ci merita.

Salgo quindi in macchina e, con Nasser, è subito amicizia. (A posteriori scopriremo che alla lady non è piaciuto l’autista, non si sa bene sulla base di quali criteri, ma così ha riportato al bigliettaro del museo).
Gli chiedo di portarmi rapidamente in un posto centrale a caso, possibilmente lontano da quella pazza indemoniata. Lui è d’accordo. Durante la corsa assume lo stesso identico atteggiamento del precedente autista, ma questa volta addirittura utilizzando due telefoni contemporaneamente. Non è raro che alzi il telefono con uno squillante “Halo Habibi” (ciao caro) da una parte, mentre risponde a un messaggio dall’altro telefono. Con la mano di Allah, forse, tiene il volante. Non lo so. Comunque, mi scarica a destinazione dicendo che è disponibile per qualunque mia necessità, di chiamarlo che sarà il mio autista. Ottimo, ciao Habibi, a presto. E così inizia la mia perlustrazione di Manama in cerca di: (a) miei simili, leggasi dei turisti, tipo un centro turistico, la proloco de noantri, per intenderci; (b) degli expat di cui pare la città brulichi, almeno secondo il mio libriccino. Va da sé che non m’è toccato di incontrare né l’uno né l’altro, ma il mio pomeriggio si è sviluppato nel seguente modo.

Mi sono segnata sulla mappa alcuni punti d’interesse che sono curiosa di visitare. Inizio a camminare attraverso il suq centrale, un mercato (vedi episodio precedente) in parte coperto in parte no, pieno zeppo di cose, dai tappeti, ai vestiti, ai tavolini, ai gioielli. Chiedi e ti sarà dato, ma anche se non chiedi.
La seconda tappa è una casa storica che mi sembra miracolosamente ben segnalata su Google proprio come un’attrazione turistica. Seguo il tracciato a piedi suggerito da Maps e giungo di fronte a questo bellissimo edificio che ha tutte le sembianze di essere, ahimè, chiuso. Faccio un paio di giri intorno per capire se c’è un’entrata alternativa, magari secondaria. Torno al portone di partenza perché tutto il resto è muro privo di brecce. Controllo gli orari di apertura su Google: pare aperto. Controllo gli orari di apertura sul sito ufficiale del Governo del Bahrein: pare aperto. Scorgo un cartello con gli orari di apertura: mi conferma innegabilmente che la casa è aperta. Dai, mi dico, spingiamo la porta. Metti che… è aperto! Buonsalve, vorrei di grazia visitare questa bellissima casa, devo pagare dazio? Un uomo mi guarda torvo e mi si avvicina un poco, ma non troppo. Mi dice che devo comprare il biglietto. Ma certo, sono qui apposta, volentieri, quant’è? No, il biglietto si compra al Manama Gate. Ecchallà! Tutta speranzosa già immagino che questo Manama Gate sia la proloco che tanto stavo cercando. Gate come porta di benvenuto alla città, tutto torna! Digito su Google e mi escono un tot di Manama Gate, nessuno dei quali sembra avere a che fare col turismo. Ne identifico uno che, non so per quale motivo, mi pare più papabile degli altri, lo mostro all’uomo di guardia il quale, con fare molto assertivo, mi conferma che è proprio quello il posto dove devo andare. Ammazza che culo, 800 mt. Non so… Vabbé, seccata, mi dico vado e torno. E cammino finché non mi avvicino alla destinazione, mi avvicino, mi avvicino. La strada è del tutto commerciale e non mi pare si lasci andare in convenevoli per il turista medio. Arrivo al Manama Gate in questione che ha tutte le sembianze di essere… un ferramenta. Dico proprio: un ferramenta. Guardo la mappa, guardo il Manama Gate. Rifletto sul motivo per il quale un ferramenta dovrebbe chiamarsi Manama Gate. Forse perché fanno assistenza ai cancelli? Non è comunque un problema che mi riguarda, adesso. Per quanto assurdo possa essere, decido di entrare a chiedere informazioni. Buonsalve, buonuomini, scusate la domanda peregrina. Capisco di poter sembrare una cretina totalmente fuori di testa, ma mi hanno mandata qui per comprare i biglietti per visitare questa casa storica. Ora, probabilmente voi i biglietti non li vendete, ma che per caso c’avete ‘na copia delle chiavi? Questa è l’unica domanda sensata che potrei fare dentro un ferramenta. Mi fermo all’affermazione retorica “immagino voi qui non vendiate i biglietti, nevvero?”. E quelli no, a malincuore mi dicono che non sapevano nemmeno dell’esistenza di questa casa, “bella però!” gongolano quando gliela mostro sul telefono. “Ci sa che quel tizio ti ha preso in giro”. Eh mi sa anche a me brutto coglione. Niente, se non mi vuole non mi merita e proseguo.

Mi convinco che è ora di cena anche se sono le 6 del pomeriggio, estenuata da queste camminate a fondo perduto. Voglio provare un posto chiamato La Fontaine, segnalato nel mio libriccino sul Bahrein (che poi fa anche rima). Cammina che ti cammina tra un’autostrada e una viuzza deserta, senza soluzione transitoria tra le due, arrivo di fronte a questo edificio. Ancora una volta, faccio un paio di giri intorno per capire dov’è l’entrata che, pur essendo segnalata, ha tutte le parvenze di essere chiusa. Spingo la porta e wow! C’è un uomo che si appropinqua… Ah no, eh, stavolta non mi freghi! E invece, tutto gentile e servizievole questo mi dà il benvenuto, prego ma’am, le faccio strada di qui, guardi che bello di là, questa è una casa ricca di storia, prego questa la nostra elegante zona accoglienza. Il paradiso terrestre, un’atmosfera magica, un posto profumato, che racchiude una spa, un centro culturale e, appunto, un ristorante. Procedo, mi accomodo in questo giardino dell’eden e mi faccio servire e riverire. Sono solo io. Per le quasi due ore che trascorro in questo posto sono solo ed esclusivamente me stessa, in compagnia del cameriere che si fa comunque i fatti suoi. Il relax. Questi sì che mi meritano.

Rifletto su alcuni spunti colti qua e là. Primo, il Bahrein non è un posto poco turistico, è un posto anti-turistico. Se possono non darti un’informazione non la troverai nemmeno per caso. Non è nascosta, è dimenticata, non esiste. Gli stessi siti ufficiali (che poi è uno con diverse pagine) non rimandano mai a uno straccio di piattaforma realmente informativa. Ti raccontano della rava e della fava della casa di sticazzi ma non ti dicono se e come quella casa è visitabile. Vai con Allah. Secondo, dietro un ferramenta c’è quasi sempre ferro, chiavi inglesi e chiodi. Raramente vi si trovano informazioni turistiche. Terzo, la parola Gate è un false friend bello e buono, consiglio di chiedersi per tempo se l’interpretazione deve essere letterale o metaforica. Quarto, chi non ci vuole non ci merita. Nasser, sarò io la tua unica ma’am.